Social net: condanna per diffamazione aggravata e continuata

/ Giugno 12, 2020/ Giovanni Dotti, giustizia, Partigiano Civico

Lo scorso 7 febbraio, il Tribunale di La Spezia ha condannato in primo grado, per diffamazione aggravata continuata, il sig. Giovanni Dotti, conosciuto anche come “il sindaco della calata” di Portovenere.

E’ il momento, per me, di scrivere sul blog in maniera un po’ più approfondita, riguardo ad una vicenda che si è protratta per anni, probabilmente non ancora terminata in via definitiva. Lo scorso 7 febbraio, il Tribunale di La Spezia ha condannato in primo grado, per diffamazione aggravata continuata nei miei confronti, il sig. Giovanni Dotti, conosciuto anche come “il sindaco della calata”. Dotti è stato ritenuto colpevole di tali reati, aggravati dal fatto che siano stati commessi su Facebook, ovvero su media equivalente a mezzo stampa, nel vincolo della continuazione. La condanna consta in 1.200,00 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali. E’ stata disposta la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena per anni cinque, concedendo il beneficio della non menzione, in quanto i reati ascritti (artt. 81 cpv., 595 primo e terzo comma c.p.) prevedono nel caso peggiore, di offesa “recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico“, la pena della “reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro“. Dotti è stato condannato anche al pagamento in favore della parte civile, della somma di euro 1.500,00, oltre agli interessi legali fino al saldo, a titolo risarcimento danni e, sempre a favore dello scrivente, delle spese processuali che si liquidano in complessivi euro 3.447,00 (di cui € 27,00 per esborsi) oltre, spese generali, IVA e CPA come per legge.

Questo il capo d’accusa pienamente convalidato dal giudice di primo grado, dott.ssa Elisa Scorza:

Diffamazione aggravata continuata (artt. 81 cpv., 595 primo e terzo comma c.p.) perché in Portovenere, dal 13 marzo all’1 giugno 2014, con più azioni esecutive del medesimo criminoso, comunicando con più persone sul social network denominato Facebook, offendeva la reputazione di BRUNETTI Daniele con le seguenti espressioni a costui riferite:

“avrai la possibilità di fare un po’ meno il vigliacco di scrivere le cose tramite un pseudo comitato di merda” … “comitato tu non saresti neanche degno di fare da portaborse a sto cazzo” … “uomo senza palle, che si nasconde con lo pseudonimo di un finto comitato … senza avere i coglioni di postarsi con nome e cognome” … “sta faccia di bronzo” … “ho perso solo del tempo a parlare con un coglione” … “e ce ne fossero come Gianni Testamonda” … “te sei proprio una merda” … “una cosa ci riesci perfettamente scassare la minchia”.

Con l’aggravante di aver commesso il fatto con la stampa o in modo equivalente.


Chi ha avuto modo di frequentare il gruppo “Il Comune Siamo Noi” dal 2014 in poi, almeno un po’ lo sa, se non di più. In un primo momento poteva sembrare un gruppo di stimolo alle buone pratiche nella gestione della cosa pubblica comunale. Invece si rivelò, sempre di più, strumento di propaganda politica e veicolo di demagogia di basso livello, con qualche scopo secondario d’uso pubblico (spazzatura, deiezioni canine e poco più).

I miei interventi critici e documentati, sempre nell’alveo del rispetto dell’educazione e della legge, anche se magari duri e puntigliosi nella sostanza, fecero sobbalzare coloro che, da quel gruppo, si aspettavano solo elogi all’amministrazione comunale e risoluzione di problemi bagatellari quotidiani. Chi leggeva i miei scritti sapeva che il mio stile rimaneva inalterato sull’amministrazione di Matteo Cozzani, rispetto alla precedente del sindaco Massimo Nardini, in teoria di opposto orientamento politico.

Da qui, dalle mie dure critiche, iniziò una trafila di improperi e qualche minaccia da parte di alcuni personaggi. Ormai prescindevano le argomentazioni, si trattava di pure intimidazioni. Ed era questo che mi infastidiva maggiormente, si volevano colpire e tacitare la critica, le opinioni, ma anche le informazioni se ritenute scomode, forse più della mia persona. Allo stesso tempo, era un messaggio “urbi et orbi”, affinché nessun altro si permettesse di fare lo stesso e, men che meno, appoggiare le mie considerazioni. Tutto ciò faceva assai comodo all’amministrazione comunale perché, nonostante vi fossero sindaco, vari assessori e membri della maggioranza del Consiglio Comunale a ben frequentare il gruppo, nessuno (se non timidamente in rari casi) cercò di tutelare, non me, ma il civile buonsenso.

Ma, dato che non mollavo, nonostante la scarsissima propensione del gruppo, in generale, ad intervenire a tutela della convivenza civile, si prospettò, come soluzione più rapida la soluzione finale, estromettermi, espellermi con le scuse più banali, per una o più volte, fino all’ultima. Visto che, finalmente, alcune persone (poche) fecero presenti l’importanza del contraddittorio e delle informazioni documentate, motivo per cui venni “reintegrato”. Venne, poi, l’espulsione definitiva, da quella che dal sindaco stesso era ritenuta una “… pagina di riferimento per le attività del Comune di Portovenere e dal medesimo creata …“. Impropriamente definita pagina (in quanto gruppo), ma anche impropriamente descritta come creata dallo stesso ente pubblico e di riferimento ufficiale, dato che era stata creata e “moderata” da Giovanni Dotti. Descrizione, quella impropria, che apparve nel testo della querela a mio carico, presentata dal sindaco Matteo Cozzani, a pochi mesi dalla mia nei confronti di Giovanni Dotti e Giovanni Di Simone (per quest’ultimo, il processo in stralcio è ancora in corso). Per la querela del sindaco venni rapidamente rinviato a giudizio e assolto definitivamente, già in primo grado, perché il fatto non costituisce reato: avevo riferito della sospensione di una pratica da parte sua. Tutto qui. Tra l’altro era pure la verità. Molto più lungo, invece, fu l’iter della mia querela del giugno 2014, per arrivare al rinvio a giudizio degli imputati e, solo a febbraio 2019, la sentenza di primo grado per uno dei due.

Solo ora, quindi, recupero il testo della sentenza, date le problematiche per l’emergenza Covid-19. Sono 15 pagine, estese dal giudice dott.ssa Elisa Scorza, molto dettagliate, che hanno sviscerato anche gli aspetti, in un certo senso, più reconditi, perché resi più difficoltosi da un dibattimento in cui i testi, tranne eccezioni, hanno avuto serie difficoltà ad esprimersi chiaramente. Alcuni con contraddizioni evidenti, rilevate nella stessa sentenza.

Il giudice ha letto, studiato in profondità e osservato con attenzione ogni fase del dibattimento, come professionalmente è chiamato a fare, direi in maniera impeccabile. Da profano mi pare una sentenza esaustiva ed estremamente solida, del resto molti erano anche gli atti, dato che molte erano state le esternazioni. A ciò si sono sommati, almeno a livello utile a contestualizzare, episodi ulteriormente ricorrenti, proseguiti per un periodo di tempo che arriva, praticamente, agli stessi tempi del processo.

In estrema sintesi, il processo ha visto due argomentazioni di discussione, dato che sulla qualità delle offese (almeno su quelle) non vi è mai stato alcun dubbio, pure da parte della difesa dell’imputato. Su questo mi chiedo come alcuni non ravvedessero offese in tali improperi, ma un modo passionale e un po’ sanguigno di esprimersi, come lo stesso Dotti si è più volte auto-descritto online. Pure persone che avrei ritenuto ben al di sopra degli standard minimi di educazione e cultura, con un chiaro senso del limite. Al di fuori delle considerazioni prettamente giuridiche. E ciò, a maggior ragione, in Tribunale, in fase dibattimentale.

Tornando all’essenza del dibattimento. La prima argomentazione riguardava il fatto se le offese fossero indirizzate a me, o al “Comitato Spiagge Libere Olivo” e se si sapesse chi vi fosse dietro a tale denominazione. Nella sentenza il giudice ha battuto tutti, è andato al nocciolo, trovando prove documentali chiare, del resto presenti nella mia querela. In alcune frasi venivo chiamato con il mio cognome, pure dagli imputati. E quindi, tappo saltato.

La seconda argomentazione, che ha praticamente preso gran parte del dibattimento, riguardava chi avesse effettivamente scritto le frasi diffamatorie nel capo d’accusa, a ripetizione, pure a distanza di mesi e anni, perché il contesto è stato quello. Ed è qui che la difesa dell’imputato ha dato il massimo dell’espressività. Non era il Dotti, ma un hacker che si era intromesso nel suo account Facebook. Non era il Dotti, ma una persona (un amico?) che a ripetizione usava il suo cellulare, per poi restituirlo. Non era il Dotti, ma una persona che aveva aperto un altro profilo Facebook di nome “Giovanni Dotti”. Capite bene che sono tre cose ben diverse. Peccato, poi, che non vi fosse mai stata una sola denuncia alle autorità competenti. Fossi stato un avvocato avrei puntato su una sola di queste tre ipotesi, data la mancanza di prove ad avvalorarne almeno una.

Da qui, comunque, una serie di testimonianze le quali, a sorpresa, fanno balenare che vi fosse un misterioso terzo incomodo ad offendere. Perché a sorpresa? Perché erano testi già sentiti dalla Polizia Postale ed a verbale non risultava nulla in merito ad hacker o simili. Nulla è stato, in effetti, depositato agli atti. Parliamo di fatti del 2014, che hanno visto il rinvio a giudizio ad ottobre 2017. L’imputato, del resto, ha ricevuto convocazione per l’elezione di domicilio e nomina del difensore a pochi mesi dall’inizio delle indagini (tre mesi), nel settembre 2014. Magari fosse capitato a me, querelato il mese dopo (ottobre 2014) e rinviato a giudizio già nell’agosto 2015, senza alcuna convocazione per elezione di domicilio e nomina del difensore. In maniera del tutto autonoma, data l’assenza di notizie da mesi, sono stato io a presentarmi in procura per cercare di capire cosa stesse succedendo ed, in seguito, per sottopormi ad interrogatorio volontario, prima del fulmineo rinvio a giudizio. Per intenderci, solo personalmente, in procura, scoprii che le indagini si erano già concluse da tempo.

Ficcante, però, il PM dott. Scarano è stato nel processo Dotti. Ha ben studiato le carte ed ha saputo centrare i punti deboli della questione. Come il mio avvocato Valerio Vartolo, che non si è risparmiato da professionista quale è, esperto in tema di querele per diffamazione, soprattutto a difesa della libera espressione (e non di insulto). Anche se, più spesso, si trova a difendere giornalisti e blogger dalle tanto abusate querele temerarie, in gran parte utilizzate per zittire la stampa, quando fa il proprio mestiere e dovere. Proprio come accadde anche a me, quando mi difese per conto di Ossigeno per l’Informazione (onlus), assieme all’avv. Andrea Di Pietro. Ed è stata per me una grande fortuna incontrare l’amico Vartolo, quando credevo di non avere più speranza ed ero alla spasmodica ricerca di un legale affidabile e competente. Quello che ho imparato è che un processo, anche il più banale, può diventare il più difficile se molti pianeti si allineano contro di te (a prescindere). E non intendo solo Saturno contro, ma ogni elemento dell’insieme, anche quelli che dovrebbero stare dalla tua parte, oltre a coloro che non esercitano correttamente e onestamente il proprio mestiere.

Elementi di rilievo della sentenza

Venendo ad aspetti anche più tecnici, riporto alcuni elementi della sentenza che ritengo interessanti, anche dal punto di vista giuridico. Aspetti che possono essere utili per chi dovesse trovarsi in condizioni simili, ma anche per capire quali siano i limiti imposti dalla legge. Basterebbe, però, usare l’educazione e il buon senso per non sbagliare mai.

Primo punto, credo sia chiaro a tutti, i social network sono come piazze piene di persone, come giornali ad ampia diffusione. Un messaggio diffamatorio su questi mezzi è amplificato dalla diffusione, potenzialmente senza limiti. In automatico, un insulto, una minaccia, sul social network, soprattutto su profili, pagine e gruppi aperti, diventa diffamazione a mezzo stampa o equivalente, ovvero aggravata. Reato che prevede anche il carcere.

Gli screenshot, le stampe delle schermate, vengono valutate dal giudice e possono essere acquisite come prove valide a tutti gli effetti, senza particolari certificazioni a monte, ai sensi degli artt. 189 e 234 c.p.p.. Per giurisprudenza: “… La possibilità di acquisire un documento e di porlo a fondamento della decisione prescinde dal fatto che provenga da un pubblico ufficiale o sia autenticato (…). Qualunque documento legittimamente acquisito è soggetto alla libera valutazione da parte del giudice ed ha valore probatorio, pur se privo di certificazione ufficiale di conformità e pur se l’imputato ne abbia disconosciuto il contenuto (Sez. 2, n. 52017 del 21/11/2014 Rv. 261627)” [Cass. Sez. 5, 16.01.18, n.8736; v. anche Cass. Sez. 3, 15.09.17, n.48178].

Il giudice Scorza, in merito all’identificazione della provenienza, afferma:

(…) La natura liberamente valutabile delle stampe di una videata di computer implica la necessità di verificare, non solo l’autenticità dei contenuti in esse riprodotti, ma anche la loro provenienza dall’imputato. Allo scopo, è astrattamente possibile (come ha più volte osservato la difesa Dotti) ricorrere ad indagini di tipo tecnico-informatico, quali l’individuazione dell’indirizzo IP – identificativo del dispositivo e, quindi, della linea utilizzata per la connessione – e dei file di log, rivelatori degli eventi digitali verificatisi nel corso della connessione predetta. Per vero, nessuno di questi dati fornisce, da solo, la prova certa dell’identità dell’autore di una pubblicazione online, ben potendo (come hanno spiegato sia il consulente della difesa che il teste Leonardi [ndr: agente della Polizia Postale]) farsi uso di software idonei a mascherare l’indirizzo IP o connettersi ad una rete Wi-Fi pubblica, si da impedire l’individuazione del dispositivo utilizzato per l’accesso. Analogamente, l’eventuale estrapolazione dei dati di traffico telefonico relativi ad un apparecchio non fornisce con assoluta sicurezza indicazioni a proposito dell’identità di chi lo ha utilizzato al momento del caricamento dei contenuti online. In buona sostanza non esiste, in materia di diffamazione a mezzo Internet, un mezzo di prova che restituisca, da solo, la certezza dell’identità dell’utente di un profilo social o di una pagina online al momento della pubblicazione offensiva, sicché a tale certezza si deve pervenire in via logica attraverso una inferenza logica che rispetti rigorosamente i parametri indicati dall’art. 192, co. 2, c.p.p. (v., in questo senso, Cass., Sez. 5, 22.11.17, n.5352, non massimata). (…)

La difesa dell’imputato ha posto la questione dell’assenza della disponibilità dei file di log di Facebook (che molto raramente la società americana invia agli inquirenti), dell’indirizzo IP, dei dati di traffico dell’utenza Dotti e del profilo al momento dell’apertura. Aspetti che farebbero venire meno le prove di colpevolezza a carico del Dotti.

Di diverso avviso il giudice, che estensivamente e dettagliatamente motiva, basandosi sulla coerenza dei fatti, la reiterazione dei commenti, “(…) senza che sia possibile cogliere una cesura nel linguaggio utilizzato o nel modo di esprimersi, tale da far pensare ad un diverso autore delle pubblicazioni; tanto è vero che nessuno degli iscritti ha mai effettivamente dubitato che a scrivere sulla relativa pagina (o in genere sul social network, all’epoca) fosse il vero Dotti Giovanni. (…)“.

In merito ricordo commenti ironici miei e di altri, ben dopo il periodo al capo di accusa, quando ci si chiedeva se fosse lui o un hacker russo, o magari francese, più recentemente. Commenti che qualcuno cercò di far passare nel dibattimento come seri. Cosa, evidentemente, ben distinta e chiaramente compresa dal giudice.

L’apporto dei testimoni ha, sostanzialmente, nonostante molti non ricordo o incertezze, portato ulteriori elementi a conferma dell’identità del soggetto che utilizzava il profilo “Giovanni Dotti”, anche sulla base delle contraddizioni contingenti, o in rapporto a quanto già dichiarato a sommarie informazioni alla Polizia Postale.

Il giudice rileva che Dotti era (e lo è ancora oggi) anche amministratore del gruppo pubblico “Il Comune siamo noi”: “… sicché in qualsiasi momento avrebbe potuto (e dovuto) vedere e rimuovere eventuali commenti poco consoni o ingiuriosi pubblicati da altri. …“.

Ed ancora:

Dotti Giovanni (che non ha reso esame) non ha mai disconosciuto la paternità dei contenuti in considerazione, non offrendo personalmente alcuna ricostruzione alternativa a quella oggetto dell’ipotesi accusatoria. E’ stata, in effetti, la sua difesa a prospettare l’avvenuto hackeraggio del profilo Facebook del Dotti quale spiegazione alternativa idonea ad escludere l’ascrivibilità allo stesso Dotti delle pubblicazioni offensive de quibus (v. Cass. Sez. 3, 22.11.16, n.20884, per cui “ai fini della formazione del libero convincimento del giudice, sussiste un effettivo contrasto fra le opposte versioni rese dall’imputato e dalla persona offesa, oggetto di valutazione da parte del giudice anche al fine di verificare l’attendibilità di quest’ultima, solo nel caso in cui sia l’imputato personalmente ad aver fornito la contrastante versione dei fatti, non essendo sufficiente invece una mera prospettazione da parte del suo difensore“).

Indubbiamente, quest’ultimo, un apporto giurisprudenziale molto interessante.

In merito al presunto hackeraggio dell’account dell’imputato, nemmeno i testi sono riusciti ad essere convincenti, data l’incertezza della collocazione temporale. Secondo il giudice, in modo specifico, un teste: “… è risultato scarsamente attendibile nel momento in cui ha affermato che la cosa gli era rimasta impressa e, tuttavia, non aveva avuto alcun interesse a parlarne con Dotti nella vita reale.“. Premettendo, costui, un buon rapporto di amicizia e frequentazione con l’imputato.

Non risulta, poi, che l’imputato abbia mai presentato alcuna denuncia in merito al profilo hackerato. Ed ancora la dott.ssa Scorza: “In effetti, la difesa dell’imputato ha prodotto all’udienza del 7.2.2020 una mail inviata da Facebook al Dotti con la quale il social network lo invita a modificare la password di accesso per la possibilità che qualcuno possa essere entrato nel suo account. La mail in questione, tuttavia, reca data 31.10.19, ovverosia oltre cinque anni dopo i fatti dei quali Dotti Giovanni è chiamato a rispondere.“.

Seguono numerosi altri episodi estrapolati da documenti prodotti in una delle udienze dalla parte civile, a rafforzamento dell’ipotesi accusatoria. Per il giudice:

(…) Ora, come si vede, il quadro indiziario a carico dell’imputato è certamente connotato da gravità, precisione e concordanza. Portano, infatti, a ritenere con sufficiente certezza processuale che sia stato proprio Dotti Giovanni a pubblicare i commenti di cui all’imputazione (…) la continuità del linguaggio utilizzato, il contesto della pubblicazione (…), il ruolo di amministratore del gruppo (…), l’assenza di qualsivoglia indice di intrusione nel suo account, così come il difetto di qualsivoglia menzione di una simile intrusione tanto sul social network quanto nella vita reale, la mancata presentazione di denunce, il mancato disconoscimento da parte del prevenuto della paternità dei post. E ancora, l’espresso riconoscimento della appartenenza dei commenti rinvenibile nelle pubblicazioni del settembre ed ottobre 2014, contenenti particolari della vicenda processuale che verosimilmente solo il Dotti era in grado di conoscere; il fatto che solo successivamente alla notifica dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p. (ovverosia circa tre anni dopo le pubblicazioni incriminate) l’imputato ha cominciato a menzionare il presunto hackeraggio; il fatto che, pur attribuendo ad altri la paternità delle espressioni rivolte al Brunetti, il Dotti ha manifestato espressa e piena adesione ai relativi contenuti, proseguendo nelle manifestazioni di insofferenza nei confronti della parte civile fino ad epoca assai recente; il fatto che, a quanto è dato evincere, è stato lo stesso Dotti ad avere creato un profilo sotto altro nome nel 2019. (…)

Ed ancora:

(…) nel corso della discussione la difesa Dotti ha sostenuto che la polizia giudiziaria avrebbe potuto sentire Dotti a sommarie informazioni e chiedergli se riconosceva i post; è di tutta evidenza come ciò non sarebbe stato possibile, data la immediata qualificabilità del Dotti quale indagato. Ben avrebbe, invece, egli potuto chiedere di essere sentito, in fase investigativa o dibattimentale, e fornire la propria versione degli accadimenti. A fronte del solido quadro indiziario sopra descritto, in definitiva, la tesi dell’hackeraggio, seppure astrattamente plausibile, resta confinata nel campo delle mere congetture e, come tale, non è idonea a fondare un dubbio che possa dirsi ragionevole (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. 4, 17.6.2011, n. 30862). (…)

Il giudice passa, poi, ad approfondire il tema riguardante le espressioni utilizzate nei commenti, enucleando corposa giurisprudenza, soprattutto prodotta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, allo scopo di distinguere il confine fra libertà di espressione e lesione della reputazione della parte civile. Questo un estratto dell’analisi:

Come si vede, la volontà di censurare il Brunetti per l’utilizzo dell’account del Comitato Spiagge Libere per effettuare i propri interventi sul gruppo Il Comune siamo noi è trasmodata in un aperto attacco alla sua persona, alla quale non soltanto sono stati attribuiti vigliaccheria, indegnità, pignoleria eccessiva, ma sono state rivolte vere e proprie offese, gratuitamente lesive della reputazione della parte civile. Il linguaggio usato, infarcito di volgarità, travalica la continenza espressiva propria di un autentico diritto di critica e rivela la scomposta insofferenza del prevenuto nei confronti del Brunetti, ‘reo’ di avere espresso pressanti valutazioni critiche dell’operato dell’amministrazione comunale. (…) Nella specie, Dotti non si è limitato ad esprimere con decisione ed asprezza il proprio giudizio negativo sull’utilizzo da parte del Brunetti dell’account del Comitato, ma si è spinto ad aggredire la sua persona con espressioni volgari e scurrili tese unicamente a denigrare ed offendere.

La sentenza termina con la parte più prettamente tecnica, riguardante gli elementi di legge per addivenire agli estremi concreti della condanna, come riportato in testa al presente articolo.

Termino con una mia breve considerazione in merito allo scopo di questa pubblicazione. Spero che questa sentenza, benché non definitiva, come gli episodi da cui è scaturita, possano essere di insegnamento, quantomeno indicativi, sia in merito all’importanza del mezzo (social network), sia riguardo alla necessità di un confronto civile in ogni occasione, pur aspro che possa essere. Allo stesso tempo, l’importanza di non cedere alle intimidazioni, quando si ritiene di dover esprimere le proprie opinioni. A maggior ragione, quando il contesto si presenta difficile ed oppressivo. Il nostro è un paese formalmente e concretamente democratico, ma spesso infarcito di stratificazioni e contraddizioni sociali, soprattutto nelle piccole realtà, che rendono più difficile l’esercizio della libertà di espressione, di informazione e di critica. Lottare contro queste difficoltà, nel piccolo di ognuno di noi, significa mantenere vivo lo spirito dei valori costituzionali di libertà e democrazia del nostro paese.

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